LE LETTERE DI VAN GOGH

La lettura degli scritti di Vincent Van Gogh è un’esperienza molto istruttiva, per conoscerne il pensiero, il modo di sentire e inserirlo nel contesto familiare e sociale del suo mondo. Le seguenti considerazioni sono ispirate a un saggio di Marco Vallora, che introduce l’epistolario del pittore pubblicato da Linea d’Ombra nel 2012.
La melanconia attiva
Entrare nell’epistolario di Vincent Van Gogh è entrare in una malattia. Intesa come progressiva alterazione della salute del suo autore ma anche come febbre di chi lo legge. L’affinità con la “Recherche” di Proust e dell’”Uomo senza qualità” di Musil è quella di un immenso romanzo circolare, decisamente moderno, e rimasto in sospeso con il suicidio. In tutto le lettere sono 150 (almeno quelle del periodo in cui fa il pittore), non è semplice leggerle tutte. Si potrebbe essere tentati di trarre da ognuna qualche frammento significativo per comporre un’unica lettera. Vi si trovano timori e timidezze, riflessioni critiche, resoconti affettuosi di opere viste, libri letti, sensazioni vissute. L’epistolario è un sogno utopico, che ben potrebbe essere trasformato in pittura ed essere appunto la pittura di Van Gogh. Ed è improntato a quella che lui stesso chiama “melanconia attiva” e che definisce “la melanconia che spera, che aspira, e che cerca” mentre l’altra ristagna e si dispera.
Nelle lettere Van Gogh si dimostra sempre intento alla ricerca del colore perfetto, il blu o il giallo che vorrebbe, all’esercizio della pittura, spasmodico, estenuante. Vi si impegna con tutte le forze, mentali e fisiche, alla ricerca di una verità di sangue. La caratteristica sorprendente di queste lettere è la loro lucidità, il loro essere sempre presenti alla ragione, in contrasto con l’immagine borderline che ci è stata trasmessa di questo pittore. Esse ci rimandano il passaggio vitale di questo artista e la sua drammatica similitudine con il passaggio temporale, storico, dell’ottocento che cede al novecento.
Il mondo gli parla solo se è mediato dall’opera di un artista, eletto come padre ideale e degno di fiducia. Può essere un altro pittore o un letterato. All’inizio, egli si limita a guardare il mondo, non ha ancora scelto il proprio destino. Anche se, fino alla fine, dirà di sé che “come pittore non significherò mai un granché, lo sento con assoluta certezza”. Lo studio, il lavoro, sono sempre un travaglio passionale. In perenne partenza, con il cavalletto in spalla e il fuoco nell’anima. “Uno che ha un grande fuoco nell’anima e nessuno viene a scaldarsi… che fare allora? Trattenere questo fuoco dentro, confidare in se stessi, attendere pazientemente, nonostante un’enorme impazienza, il momento in cui qualcuno verrà a sedersi e si fermerà, che altro?”.
La pittura del futuro
La pittura del futuro è, per lui, l’opera di una comunione con altri artisti. In effetti è alla perenne ricerca di un alter ego, di un amico, di un coautore: saranno Théo, Gauguin, il dott. Gaghet e altri. Gli uomini, per essere liberi, devono amare. Amare con sincerità e profondità porta a Dio. Capire i grandi capolavori dell’arte e della letteratura porta a capire che lì dentro c’è qualcosa di più grande, dentro alle opere degli artisti c’è Dio.
L’ossessione di osservare e comunicare, con la parola del predicatore o l’opera del pittore sfocerà nel dramma della solitudine, quando Van Gogh si accorgerà che il mondo non è disposto ad ascoltarlo. Non è mai un problema di successo personale, è sempre un problema di ascolto. Prova ne è la reazione alla critica positiva dell’unico critico d’arte contemporaneo che capì la sua arte, Aurier. Il pittore ripetutamente chiede al fratello di intervenire per farlo tacere, pur riconoscendo che la fama potrebbe far rientrare i costi della sua pittura, sostenuti dal fratello Théo. E lo chiede perché riconosce nelle parole di Aurier come lui dovrebbe essere, ma non sente di essere riuscito a diventare. Si sente inadeguato, inferiore. Inoltre, l’orgoglio ubriaca come l’alcol e fa diventare tristi, mentre lui ha bisogno di ridere di cuore, così scrive.
È per questa solitudine che Van Gogh personifica il passaggio dall’Ottocento al Novecento. Egli è un uomo del Novecento, che non può vivere né pensare se non come alienato dalla società, comunque assolta. Non vuole riflettori sul suo dolore, anche Pavese lasciò scritto “non fate troppi pettegolezzi”.